Errando solitario
a cura di Alice Gavazzi e Francesca Santi
special guest @egyzia
L’oggetto del desiderio venuto a mancare, il degrado e la delusione.
È un disperato Catullo, quello che ci parla. Che cosa ci racconta? La sua Lesbia, amata tanto e tanto a lungo, sta vagando per i sobborghi di Roma. Da sola? Certamente no: i nipoti del magnanimo Remo sono nelle sue grinfie. Amanti occasionali, come in precedenza è stato lo stesso Catullo, clienti di una fedifraga donna che non esiterà a gettarli dopo l’uso.
Il poeta ci rende partecipi di una confessione disperata di fronte all’impossibilità di essere ricambiato in pari misura e intensità per un amore sentito, con angosciosa lucidità, come totalizzante.
Il commovente flashback iniziale, la dichiarazione ad un ammutolito Celio, di un sentimento che era giunto ad escludere tutti gli altri, è posto brutalmente a confronto con il degrado del presente che, in un abisso senza fondo di depravazione morale, capovolge drammaticamente il rapporto tra i due.
Lesbia, la bella senz’anima, l’unica per Catullo, è ora di tutti e a loro si concede senza ritegno, nello squallore umiliante di luoghi malfamati, da sempre simbolo di corruzione e perversione. Rapidità di fuggevoli incontri e casualità di approcci con partner occasionali illuminano sinistramente la sfrenatezza sessuale e la totale mancanza di ritegno della “puella”, che resta ancora, comunque, colei che “Catullo amò più di sé stesso e tutti i suoi.
Tuttavia, in questo caso, la frustrazione del poeta non si riversa nella perfida invettiva del carme 37, ma assume toni cupi e rassegnati, indici di un amore volto al termine, che effettivamente poteva essere chiamato amore solo da una parte. Parte che non trova quiete e rifugio, destinata a vagare solitaria nella coltre nebbiosa degli amori non corrisposti
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