di Giovanni Albergucci
Ho potuto assistere, presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ad una interessante discussione sulla celebre tragedia greca Medea nelle sue rivisitazioni moderne.
In questa sede ho finalmente capito perché la scuola, la società, la cultura – in sintesi le persone – continuino a tenere a mente la mitologia greca: la natura umana è qui raccontata in modo talmente intimo, esatto e dettagliato, da attrarre senza scampo l’uomo contemporaneo, curioso di trovare un senso alla propria personalità; inoltre, i protagonisti risultano, spesso, sociotipi ancora presenti nelle civiltà odierne (Medea è l’archetipo di chi, in quanto straniero, viene stigmatizzato e relegato ai margini della società).
Filippo Ducci, studente della III Liceo Classico Niccolò Forteguerri sez. B e primo dei cinque oratori intervenuti, ha tratteggiato anima e corpo della riscrittura francese di Jean Anouilh Medée, con ineccepibile cura.
Il suo intervento, svolto con grande accuratezza, mi ha fatto scoprire nuovi aspetti di un’opera che credevo di conoscere, motivandomi a leggere attentamente il testo francese e rendicontarlo per come segue.
La prima riflessione da fare è sulla suddivisione delle opere di Anouilh, in base al tono in esse predominante: la Médée si situa nei cosiddetti “Testi Neri”, opere con cui l’autore si prometteva di analizzare le passioni più oscure e potenti dell’animo, servendosi del confronto tra “uomini di tutti i giorni” – sostanzialmente, caratterizzati da una profonda ignavia – e “eroi” – personalità che si oppongono a improponibili dettami della società, spesso in totale solitudine.
Nella sua tragedia, Anouilh aveva il preciso intento di dimostrare come la personalità, le emozioni e i sentimenti della Mèdeia possano essere letti in prospettiva atemporale e, a questo proposito, ha utilizzato artifici scenici diacronicamente in contrasto tra loro: la nutrice e la protagonista vivono, a tutti gli effetti, in un carrozzone, ma rievocano rituali tipici del mondo greco come feste della Colchide, lotte tra i giovani e sacrifici animali rivolti agli dèi.
Dal punto di vista contenutistico, la trama è molto simile a quella euripidea, semplicemente, Anouilh va ad accentuare l’introspezione psicologica dei personaggi a discapito delle azioni da loro svolte: infatti, molte delle vicende narrate non furono messe in scena.
La tragedia risulta, inoltre, avere una forma snella, poiché sulla scena si muovono solo Medea, Giasone, Creonte e la nutrice.
Proprio quest’ultima, all’interno della rappresentazione, assume maggior spessore. Essa va letteralmente a sostituire il coro, quindi esprime le reazioni collettive di fronte a ciò che veniva rappresentato. Appartiene evidentemente alla prima categoria di personaggi “da testo nero”: appare antieroica, affettuosamente legata a Medea , ma ancora capace di cogliere le piccole gioie della vita:
“Medea, sono vecchia, non voglio morire! Ti ho seguita, ho lasciato tutto per te. Ma la terra è ancora piena di cose buone, (…) la minestra calda a mezzogiorno, (…) il goccio che riscalda il cuore prima di prender sonno.”
J. Anouilh, Medea, traduzione di Giulio Cesare Castello, Valentino Bompiani & C., 1949.
Il lettore non se la sente di condannarla o di giudicarla negativamente, considerato che la passionalità di Medea avrebbe stimolato le medesime reazioni in quasi tutti.
Su Creonte, che personifica il potere istituzionale ed è impegnato ad assecondare l’ostilità comune nei confronti della maga, si possono riconfermare le considerazioni già fatte in Euripide.
La grande originalità di Anouilh si riscontra in Giasone.
Il Giasone euripideo, vile e insulso, destava nello spettatore un moto costante d’antipatia: sminuiva i meriti di Medea e si beffava di lei asserendo, per esempio, di tradirla per il bene della sua famiglia.
Nonostante egli fosse già stato riscritto positivamente da Seneca e da Dante, che addirittura lo presentò come un seduttore fiero e superbo, di spicco sulla schiera dei dannati, Anouilh ne dipinse uno ancora nuovo, tenendo conto delle colpe da attribuirgli.
Per comprendere appieno il personaggio, risulta significativo il dialogo in cui Giasone ripercorre la storia della passione amorosa con Medea, che occupa quasi metà della tragedia. In esso si equivalgono un forte sentimento di pietà rivolto a Medea e la nostalgia per il sentimento passato: le parole dell’eroe evocano, quasi con patetismo, l’episodio del loro innamoramento, dapprima superficiale, dettato dal carattere “selvaggio” di Medea e dal suo aspetto, ma successivamente totalizzante, poiché in lei si riunivano l’amore, l’amicizia e il cameratismo di due esuli.
Nel personaggio di Anouilh tutto questo è passato, ma non può essere ignorato.
Tanto è vero che, in virtù del suo grande amore, l’eroe confessa a Medea il desiderio di un futuro con lei, reso irrealizzabile dalla frenesia caratteriale della donna: dopotutto, non sarebbe mai stata capace di adeguarsi e d’inserirsi in una società fin troppo analoga a quella da cui, in precedenza, erano fuggiti; non avrebbe mai potuto accettare i costumi, le usanze, le tradizioni corinte, fin troppo simili a quelle di Colco.
A questo punto, nonostante qualche ripensamento iniziale, inferocita dalle parole del marito, la protagonista metterà in atto la sua vendetta, in modo speculare alla versione euripidea: prima di uccidere la progenie, farà consegnare un velo d’oro, impregnato di veleno, alla principessa di Corinto, che morirà tra atroci sofferenze.
Ciò che più colpisce di questo passaggio, però, non è tanto il violento, seppur coerente, stile lessicale dell’autore, quanto l’esperienza vissuta da Medea: la maga sembra risorgere dalle ceneri del suo amore tradito; esulta e sorride a sofferenze, fiere e luoghi che associa alla notte scesa sulla città di Corinto; li chiama fratelli, in quanto elementi ben noti alla vera Medea, finalmente libera dalle catene di Giasone.
Per concludere, l’epilogo: nella versione di Anouilh, Medea muore nel rogo da lei stessa appiccato al carrozzone, non vola via su un carro alato di natura divina; il pubblico ha la capacità di sentirsi più vicino a questa madre suicida, rispetto alla strega onirica e quasi immortale dipinta da Euripide.
Il lettore/spettatore si trova a condividere la gioia insensata che accompagna gli ultimi istanti di vita di Medea e contempla con mestizia la figura di una donna dilaniata nell’animo, privata della propria dignità e resa folle dall’amore.